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Letture – La mia casa è dove sono

21 ottobre 12010

La mia casa è dove sonoIgiaba Scego
La mia casa è dove sono

Rizzoli  24/7

Sheeko sheeko sheeko xariir…

Storia storia oh storia di seta…
Così cominciano tutte le fiabe somale. Tutte quelle che mia madre mi raccontava da piccola. Fiabe splatter per lo più. Fiabe tarantinate di un mondo nomade che non badava a merletti e crinoline. Fiabe più dure di una cassapanca di cedro. Iene con la bava appiccicosa, bambini sventrati e ricomposti, astuzie di sopravvivenza.

Nelle fiabe di mamma non esistevano principesse, palazzi, balli e scarpine. Le sue storie riflettevano il mondo in cui era nata lei, la boscaglia della Somalia orientale dove uomini e donne si spostavano di continuo in cerca di pozzi d’acqua. «La casa ce la portavamo sulle spalle» mi diceva sempre. E se non era proprio sulle spalle, poco ci mancava. Il miglior amico dell’uomo, il nobile dromedario, spesso la portava al posto loro.

Rileggendo l’incipit (che si trova, mi pare con tutto il primo capitolo, qui), mi accorgo che il libro era già qui, nelle prime righe. Dove appunto lo splatter, il dolore, la morte, la sofferenza sono presentate come parte integrante dell’esistenza.

Fra i ricordi diretti e indiretti di una patria lontana e forse scomparsa nel sangue e le peripezie di un presente che non prometteva futuro. Dalla vecchia Stazione Termini puzzolente di piscio alle distribuzioni quasi notturne dei pacchi della Caritas in Trastevere, insieme a bellissime e nonostante tutto ancora aristocratiche donne somale avvolte in colorate stoffe.

Con le storie di un padre tombeur de femmes e di una madre che meriterebbe davvero l’appellativo di  madre Coraggio.

La sora Igiaba racconta e ci svela la sua Roma (con la sciarpa giallorossa 🙂 ),  una città disegnata con Mogadiscio nella testa, ma senza cedere alla lacrima, all’autocommiserazione; neanche quando, così en passant, accenna ai compagni di scuola che dicevano cose terribili sul colore della sua pelle; ma detta così, come raccontando di un acquazzone fastidioso. Per tutta la lettura, l’unica immagine che resiste è il sorriso di copertina di una ragazza che in culo… pardon, chiedo scusa per la caduta di tono :roll:, volevo dire alla faccia delle jene del corno d’Africa e di quelle forse più schifose e umanoidi dei sette colli è diventata scrittrice (ormai neanche più promettente, ma a tutto titolo) e giornalista (per esempio sull’Unità come pure su Internazionale)

Purtroppo, le jene che dovrebbero leggere questo libro, non lo capirebbero neanche. Forse non sono neanche in grado di leggere qualcosa di più complesso di uno slogan. 😐


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